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              Ci dicono tutti che a essere lì con loro siamo coraggiosi, «Siete lionheart». Ma ovviamente non c’è un bel niente di coraggioso da parte nostra. Abbiamo un passaporto dell’Unione europea che vale più di quanto abbiamo mai posseduto, e nessuno ci sparerà addosso. Contrattiamo sui prezzi perché qui si fa così, ma non è un problema se poi il costo di un taxi rimane più alto del dovuto. E comunque, se le cose si mettessero male saremmo subito pronti a giocarci cento o duecento shekel in più.


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              «Che è successo ai tuoi capelli!» è la prima frase che, al mercato di Betlemme, H. rivolge a Pier mentre si toglie il berretto per salutarlo.
– Niente, li ho persi, li ho persi!
Dall’ultima volta in cui si sono visti sono passati «i due anni peggiori di sempre». Di sempre, dice. «Pensavamo sarebbe durata qualche mese, al massimo un anno».
A lui è andata ancora bene, gli affari in qualche modo reggono. Altri qui hanno venduto la macchina, il divano, il tavolo.
«Un mio amico è appena morto».
In un attacco? «No, infarto. A cinquantacinque anni. Nessuno ne parla, ma siamo tutti depressi, tutti stressati». Anche questo uccide: «Ci servirebbero centomila dottori».
Forse ci rivediamo a dicembre, gli dice Pier. «Inshallah» risponde con braccia allargate e sorriso, «ma non faccio programmi».


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              C’era chi, secoli fa, nella basilica della natività a Betlemme entrava addirittura a cavallo. Per questo oggi si può accedere alla navata solo attraverso una porta minuscola, piegando la schiena. Nella cripta – che qui si chiama, la “grotta” – dove si trovano il punto in cui sarebbe nato Gesù (una zona del pavimento di proprietà della chiesa greco-ortodossa) e il punto in cui sarebbe stato posto nella mangiatoia (una nicchia gestita invece dai francescani) c’è soprattutto odore delle lampade a kerosene. Niente code chilometriche di turisti e di fedeli; in meno di due minuti siamo entrati nella porticina della basilica e siamo scesi nella zona più sacra della cripta. E questa è una novità assoluta: qui di solito si aspetta il proprio turno, oggi non ci viene più nessuno, tranne una donna coreana e un uomo che osserva con le mani dietro la schiena. Prima di uscire, davanti al luogo della natività, ho fatto il segno della croce. Un gesto che non facevo da vent’anni. E mi è parso strano, e automatico, e collettivo. E mi ha ricordato l’infanzia al mio paese.


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              «Non dimenticherai mai il mio tè». Autoreferenziale, ma vero. S. mi parla un po’ in inglese un po’ in arabo mentre ci abbracciamo (lo conosco da meno di un minuto). Altro luogo, questo chiosco, che fino a due anni fa – come in un parallelismo laico della grotta della natività – aveva la fila di turisti. Ora siamo qui in due. Mi riempie tre tazze, buonissime e stipate di foglie aromatiche, prima che Pier ne finisca una. «La guerra è senza cuore», dice. Che poi è una delle classiche frasi vuote, se a pronunciarle non fosse uno di qui. Come anche: «Il problema non sono le persone, con le persone possiamo convivere», e onestamente gli credo.
Cosa ci metti nel tè?
«Sage-mint-mangrove-rosemary-cinnamon-ginger…»
E questa che sembra una rosa?
«È una rosa».


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              L’elenco dei luoghi vuoti, che a tutti ricordano il periodo del covid, potrebbe essere molto lungo e ripetitivo. Ne aggiungo giusto uno: le rovine del palazzo Hisham, a Gerico, una di quelle città che desideravo tanto visitare nella vita. E ora che sono qui penso già a che sensazione potrei provare se vedessi anche i resti di Ur, o Babilonia; testimonianze del momento in cui l’uomo ha deciso per la prima volta di organizzarsi in comunità più grandi, cambiando di fatto la nostra storia. Qui, nella città più antica del mondo, il palazzo Hisham non ha a che fare con quell’epoca “mesopotamica”: è in realtà un sito medievale, costruito dai califfi omayyadi. Pochi anni fa sono stati scoperti e studiati degli importanti pavimenti a mosaico, e la zona archeologica è stata rinnovata, dotata di un percorso e di una enorme copertura.
Prima del sette ottobre, dice il custode, «avevamo diecimila visitatori al mese, ora ne abbiamo cento». Non è vero, sia chiaro, sono dati del tutto inaffidabili. Ma in ogni caso rendono l’idea. 


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              E comunque non sembra esserci più nemmeno odio nelle persone con cui parliamo. Ma stanchezza. Ce lo dice H., in taxi, mentre superiamo il sobborgo di Al-Eizariya, dove abitava Lazzaro, e dove sarebbe stato sepolto (entrambe le volte). In linea d’aria, guidando per tre minuti arriveresti al monte degli ulivi, ma in mezzo c’è l’ostacolo invalicabile del muro.
E ce lo ridicono le persone che abbiamo incontrato a Gerico: «Siamo arrabbiati da settant’anni, senza niente da poter fare. Ora siamo stanchi».
Ma anche: «I beduini hanno quasi lasciato le loro comunità nel deserto qui intorno».
«Per arrivare a Hebron ci ho messo più di quattro ore».
«Ci sono anche dei finti pastori che sembrano pascolare le pecore, e invece sono tutti armati».
«A Taibe l’anno scorso non hanno raccolto le olive».
«Queste cose ammalano Jericho».
«Ma cosa puoi fare? Se ci fermiamo moriamo». 


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              Domenica sera siamo al Mihbash, un locale di Gerusalemme che ogni volta mi ricorda un circolo popolare della vecchia Milano. Ma arabo. Danno la finale di champions league fra Inter e Paris Saint-Germain (c’è un motivo se siamo proprio qui: Pier era seduto allo stesso tavolo quando, due edizioni fa, l’Inter perse la stessa finale contro il Manchester City. Da tifosi “rivali” del Milan vogliamo solo gufare, con garbo). Su un balconcino del Mihbash un uomo in pantaloncini parla in inglese a uno sconosciuto, dice: «No, noi siamo italiani ma tifiamo la Juve, quindi speriamo che l’Inter perda». Come due turisti medi, anche io e Pier ci uniamo in un commento nazionalpopolare. Del resto, l’Inter è la squadra più forte fra le italiane, è arrivata a questa finale con un percorso eroico e merita di vincere. In quel caso sarò felice di non essere in Italia, non sentire i clacson per le strade e non dover andare al lavoro il giorno dopo. L’uomo in pantaloncini ride e indica un altro tavolo: «Fabio oggi è andato addirittura a pregare al santo sepolcro!» Nella città più simbolica del mondo, ogni rito scaramantico ci sembra possa avere un certo potere.
Al terzo goal del Paris Saint-Germain ci alziamo per vedere il replay; dietro di noi c’è quello che ha tutta l’aria di essere Nello Scavo, il corrispondente di guerra di Avvenire.
Ma sei Nello Scavo?
«Ciao! E voi?»
Noi nessuno, ma ti leggiamo.
Indica l’uomo alla sua destra: «Lui è Fabio Tonacci di Repubblica».
Ma sei il Fabio che è andato a pregare al sepolcro?
«E tu come fai a saperlo?».
Me l’ha detto quello.
«Ah, quello è Lorenzo Tondo del Guardian».
Quattro a zero intanto, cinque a zero per il Paris Saint-Germain. Lorenzo, inclinato all’indietro sulla sedia, mi guarda e mi fa un gesto con la mano per dire “tanta roba”. Beviamo arak pensando che solo a Gerusalemme possono capitare serate così. Cinque a zero, capito? (Gli interisti non si arrabbino, io ho vissuto il tre a tre di Istanbul).
Mentre sullo schermo Luis Enrique alza la coppa, arriva sul telefono di Fabio la notizia: è morto Hamdi al-Najjar, il padre del piccolo Adam. Hamdi e sua moglie Alaa avevano dieci figli, a Gaza i missili ne hanno uccisi nove. Via il sorriso, e il clima torna a essere quello di una redazione.
«Eh, ma era nell’aria».
«E adesso devo scrivere il pezzo».
«Ora se Tajani conta qualcosa deve portare la madre in Italia».





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